La sostenibile leggerezza del dittongo

La sostenibile leggerezza del dittongo

Non so cosa dire, non so cosa fare.

Sono le nostre armi, non dei difetti.

‘Fermati. Se non sai cosa fare, aspetta.’


Quante volte me lo ha ripetuto il mio insegnante di teatro?

No, non ho studiato con Yoda, anche se, a ben pensarci, a Skywalker io ci assomiglio pure un poco, è probabile che andiamo dallo stesso parrucchiere.

Ed eccomi qui, nel silenzio mondo di questi tempi, ad aspettare.

Un’idea, un segno, un rumore, forse Godot che pure lui stufo di aspettare venga qua a vedere cosa sta accadendo.

Qui non arriva nulla, ahimè, solo il suono delle sirene delle ambulanze che qui nel mio quartiere, così vicino a due ospedali, transitano ogni due per tre.

Non voglio deludere il mio insegnante, acciderboli, devo fare qualcosa.

Vabbè, allora studio dizione, visto che sì non so cosa dire ma se mai mi venisse in mente vorrei anche dirla bene, con la giusta pronuncia, la cosa da dire che ora non so cos’è ma so che prima o poi di sicuro arriverà. Magari sarà pure una cosa intelligente. Forse.

Mi avvicino alla libreria, prendo un bel volumetto rilegato in nero con su disegnato un cranio un poco inquietante ma tanto carino, mi giro verso i miei quattro conviventi (tutti uomini, sono allergica al colore rosa) e ta-dà, mostro con coraggioso orgoglio il ‘Manuale di dizione’.

Non ho una giusta padronanza del dizionario italiano per descrivere la reazione di un gesto così efferato e sfrontato: uno casca dal divano, l’altro s’ingasotta con la coca cola, un altro ancora – il più vecchio – trangugia d’un sol sorso il bicchierino di grappa e s’ingasotta pure lui.

L’ultimo invece non s’accorge di nulla, preso com’è – armato di visore da marziano, cuffie e strani cosi luminescenti nelle mani – a trucidare una serie infinita di nanetti, troll e bestiacce che appaiono sul televisore.

Esplodo: – ’Siète una banda di scèmi, va bène?

Ci sono armi letali nello studio della dizione, sappiatelo, i dittonghi hanno generato caos mentali di cui voi non avete la minima conoscenza. La parola ‘bène’ correttamente pronunciata ha scatenato effetti che al confronto la reazione atomica è una nocciolina. Da non confondersi poi con ‘pène’ e ‘péne’, che lì se sbagli la pronuncia son davvero problemi seri, ma questa è un’altra storia, vabbè, vedi te gli accenti cosa possono provocare. 

I tre uomini scoppiano a ridere, incontenibili.

Chi rotolandosi al suolo, chi ingasottandosi ancor di più tra le risate, tutti e tre all’unisono iniziano a proclamare ‘siètescèmibène’, calcando sulle è aperte come fossero epiteti rivolti alla mia onorata persona. 

Mi indigno.

L’ultimo figliolo, imperterrito, continua a trucidare nanetti, troll e bestiacce. 

Beata ignoranza digitale.

Presa da un raptus di orgoglio teatrale, inspiro, tiro fuori il petto – SuperPippo ha più tette di me, detto tra noi, ma lui c’aveva le noccioline sotto il cappello io no, così per dire – mi preparo a una risposta teatrale e…

Siète una banda di scémi, va bène?’

Silenzio.

Chi ha parlato?

Il marziano. 

Sì, proprio lui, quello bardato di visore, cuffie, strani cosi tra le mani.

Alza il visore sulla fronte, sfila una cuffia, punta gli strani cosi verso i tre ora impietriti, sorride sornione.

‘-iè, dittongo, è aperta’.

Il mio cuore si riempie di gratitudine. Figlio mio, in te mi riconosco.

Si volta verso di me, lo guardo con riconoscenza.

Sorride, nei suoi occhi appare una serafica lucina. 

Punta gli strani cosi diritti e lampeggianti verso di me.

Indietreggio inquieta.

‘Mamma, ci hai fatto una testa così per anni con ‘sto dittongo, è l’unica regola che sai, quando inizi a studiare qualcosa di nuovo? Ah, tra l’altro, scémi ha la é chiusa. Bang Bang!’

Colpita e affondata.

Anna Begni

Classe millenòvecèntosessantasètte, biellése di nascita, milanése di adozióne. Vive con un marito, tré figli maschi e settantasètte piante probabilménte tutte maschie. Da trént’anni quadra cónti e bilanci di ènti nò pròfit; è convinta che un buòn utilizzo dél pallottolière pòssa contribuire a cambiare in mèglio il móndo. Amante dél Teatro, dièci anni fa, cól cuore in góla, decide di provare a vedére cóme si sta, lì, sul palcoscènico. È ancóra lì, ancór di più óra ché a far quadrare il suo impégno sociale cón quéllo teatrale c’è l’Associazióne Culturale Macró Maudit.