C’era una volta una grotta, dopo la caccia (e intorno al fuoco nacque il primo attore)

C'era una volta

Sciamani, sacerdoti, riti sacri, per comunicare con il mondo oltre la vita: ovvero le origini del teatro, per capire il presente e orientare il futuro.

Facciamo un salto indietro nel tempo, un lungo salto.

A quando non c’erano i telefoni, nonno? No, prima. A quando non c’era internet, nonno? No, no, molto, ma molto prima. E quando? Ma perché? C’era qualcosa prima di internet? Beh, sì… Allora proviamo a tuffarci in un’epoca in cui non solo non c’erano smartphone, internet, computer, ma non c’era neanche l’elettricità, non c’erano le case, le strade, i fucili e le bombe. Non c’erano le auto e gli aerei, e nemmeno i pozzi petroliferi. Il petrolio sì, ma ancora nessuno lo sapeva. Non c’era la moda e i vestiti non li firmava nessuno. Non c’era l’invidia, forse, e forse non c’erano neanche i ladri, perché erano tutti morti di fame.

Non sapevamo nemmeno scrivere, pensa te. Ci si vestiva alla bell’e meglio con quel che si trovava, più che altro con pelli di animali, senza pretese. No, non è l’età dell’oro, è solo la preistoria.

Immaginiamo ora di atterrare, invisibili, in una piccola comunità del Paleolitico e osservare ogni individuo che compone la tribù arcaica. Ogni componente porta con sé le proprie esperienze, opinioni, istanze, memorie. E queste, condivise nel gruppo, diventano lentamente patrimonio collettivo: nasce così una cultura del piccolo gruppo, fatta di elementi spirituali e materiali. E lì dentro ci poteva essere di tutto, dal segreto per cacciare il cinghiale alle ricette di cucina preistorica; ma anche credenze, invocazioni, spiegazioni cosmogoniche, culto dei morti e memoria. E tutto veniva trasmesso semplicemente raccontandolo ai più giovani che a loro volta, invecchiando, l’avrebbero trasmesso alle nuove generazioni. Ecco, tutto questo patrimonio costituiva il sistema del culto della tribù arcaica, cioè la sua relazione col sacro. E che cos’era il sacro?

Tutto ciò che è separato dalla condizione quotidiana dell’uomo.

Ora immaginiamoci la nostra tribù seduta in cerchio, la sera, intorno al fuoco a raccontarsi qualcosa di diverso dalle solite incombenze quotidiane sulla caccia o sulla ricerca di un riparo per la notte. No, non c’era ancora la birra da passarsi l’un l’altro. Quegli uomini cercano qualcos’altro e in quel momento collettivo, mentre qualcuno butta nuovi rametti nel fuoco che sfrigola,  si raccontano le proprie storie, cantano le proprie memorie e invocano le proprie divinità. Sacro e memoria, quindi. Ecco che la nostra tribù entra in rapporto con il mito, cioè con una dimensione particolare che trasmette esperienze e conoscenze attraverso il canto e la poesia.

Questo momento non è altro che un atto di culto e resta a lungo un atto collettivo, in cui ogni componente del gruppo è indifferentemente protagonista dell’evocazione e della testimonianza, attore e spettatore.

Passa un po’ di tempo, diciamo qualche millennio, e questo atto comincia in qualche modo a istituzionalizzarsi.

La piccola tribù, ormai stanziale, si è allargata  e si evolve nelle prime forme di società cittadina. A questo punto della storia i nostri antenati sentono la necessità di individuare al proprio interno un soggetto in grado di presiedere alle forme del proprio rapporto col sacro.

Ecco che l’atto di culto diventa rito. E questo rito è celebrato da una nuova figura: lo sciamano, il mago, lo stregone, il guaritore, “l’attore”, ovvero una sorta di sacerdote che provvede a garantirne le regole e a farsi tramite del rapporto del gruppo col sacro. Quindi tutto quel coacervo primordiale di credenze, prima del singolo, poi del piccolo gruppo, elaborato e organizzato, porta alla creazione di una ideologia dominante, che si manifesta durante i riti civili o religiosi della comunità.

Ma il rito in una società allargata e complessa si rivolge a grandi numeri di persone; è quindi necessario che sia ripetibile più volte  e sempre allo stesso modo. Nasce così, da parte dell’ideologia dominante, un tempo collettivo, legato per lo più al trascorrere delle stagioni, che individua nel corso dell’anno un certo numero di feste. E in queste feste, che non sono altro che cerimonie di evocazione, c’è una figura che è interessante: il sacerdote, come garante della correttezza del loro svolgimento e tramite tra la collettività e il soggetto evocato. Cioè colui che, in nome degli altri, parla con gli dei. Non solo; dagli dei riceve risposte alle sue domande, ed è l’unico a sentirle. E le domande sono quelle dell’intero gruppo. Una grande attesa collettiva, quindi, e un esperto che interpreta i segni provenienti da un’altra dimensione.

Ad un certo punto, però, si manifesta un bisogno: che tutto il gruppo senta e capisca le parole e i segni che arrivano dagli dei.

Si pone il problema di dare voce, e corpo, alle divinità evocate, e anche al tempo, alle stagioni e ai sentimenti elementari della collettività. Ecco quindi che un bel giorno qualcuno del gruppo decide di staccarsi e affiancarsi al sacerdote, andando a formare il coro, inizialmente incaricato di sollevare il canto e poi di accompagnare con suoni l’azione del sacerdote. In questo preciso momento, quando il sacerdote parla, interpretando la voce della collettività, e per la prima volta il coro gli risponde, interpretando la voce degli dei, nasce il teatro, cioè la forma più antica e nobile di spettacolo, viva ancora oggi.

Quindi, nel mondo moderno, l’attore non è altro che una specie di sacerdote o di sciamano che ci mette in contatto con un’altra realtà. E in questo rito che è il teatro, che ha la funzione di reincarnare quel mondo altro, sopravvivono la memoria di un popolo e le sue tradizioni culturali. Per questo, dunque, si fa teatro: non solo perché si ha qualcosa da dire, ma anche perché si ha qualcosa da ricordare e da rievocare.


Franco Rossi

Fa il suo ingresso sul palcoscenico del mondo a Milano in una notte settembrina del 1973, tra la morte del grande regista John Ford e poco prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur. Gli annali storici non registrano l'evento. A otto anni viene iscritto a un corso di pallacanestro. Non sapeva neanche che sport fosse. Non ha più smesso. A sedici anni viene buttato su un palcoscenico. Dopo un po’ capisce che quello era il Teatro. Non ha più smesso. Arrivato alla maggiore età, la guerra fredda finisce, crolla il muro di Berlino e cade la prima Repubblica. Le sue certezze di bambino svaniscono. Frequenta poi le panchine del cortile della facoltà di scienze politiche. Passano le stagioni, finché incontra per caso Macro Maudit. Decide di restare e entra a far parte della compagnia.